lunedì 30 luglio 2012

Le geometrie non-euclidee


Un impulso di notevole importanza alla discussione epistemologica si è avuta con la scoperta delle geometrie non-euclidee, compiuta da vari studiosi (Gauss, Lobacevskij, Bolyai, Riemann), l'uno indipendentemente dall'altro e partiti, nella prima metà dell'ottocento, da posizioni diverse, ma entrati in circolo solo alla fine del secolo. La scoperta delle geometrie non-euclidee assume un'importanza rilevante perché cambia il modo di studiare la realtà e di interpretare l'oggettività della scienza. Le geometrie non-euclidee prendono avvio da una considerazione molto semplice: se i postulati della geometria euclidea coincidessero davvero e del tutto con la natura delle cose o solo con la natura della ragione, allora negarne uno, e in questo caso il quinto (affermante che per un punto esterno ad una retta si può condurre una ed una sola parallela alla retta data), dovrebbe portare inevitabilmente e necessariamente a delle conclusioni e conseguenze contraddittorie. Ora, se si prova a negare il quinto postulato della geometria euclidea, come fece il matematico italiano Saccheri con altri scopi, ossia con il fine di dimostrarlo per assurdo, non derivano affatto delle conseguenze incoerenti e contraddittorie con i rimanenti postulati. Ciò perché la negazione del suddetto postulato fa derivare un nuovo tipo di geometria, dalla quale, però, mediante certe regole, è possibile tornare alla geometria euclidea. In maniera più precisa, dalla negazione del quinto postulato nascono innumerevoli geometrie, derivanti dalla presupposizione o meno che da una punto possa passare più di una parallela o nessuna rispetto alla retta data. Questa scoperta, del tutto razionale e coerente dal punto di vista teorico, rompeva il parametro secolare e ritenuto ineccepibile che aveva fatto studiare all'uomo l'esperienza sotto la considerazione di uno spazio a tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità, o, se si preferisce, superfici, linee e volumi). Ora, invece, diveniva perfettamente logico e legittimo parlare e ammettere uno spazio a dimensioni diverse. Esemplari sono le parole di Helmholtz nel suo saggio dal titolo Sull'origine e il significato degli assiomi geometrici (1870). Nella presentazione di esso egli scrive: “immaginiamo degli esseri dotati di una intelligenza simile alla nostra, ma che vivono in uno spazio a due dimensioni, e cioè avente lunghezza e larghezza, e mancante di altezza; ammessa che tale superficie sia piana, è possibile costruire una geometria identica a quella euclidea per tutto quello riguardante linee e superifici, ma l'idea di una terza dimensione e di un movimento in essa sarebbe per loro un'idea inconcepibile così come per un cieco non è possibile concepire i colori: allo stesso modo in noi che non riusciamo a rappresentarci uno spazio che abbia più di tre dimensioni. Immaginiamo però che questi esseri, intelligenti come noi e a due dimensioni, non stiano su una superficie piana, bensì sferica. Ecc, in questo caso è possibile costruire una geometria non-euclidea ove la linea più breve tra due punti sarebbe il massimo arco del cerchio passante per i due punti considerati”. Questi sviluppi teorici troveranno in seguito applicazione con l'avvento della teoria della relatività.
Importante per lo sviluppo della geometria non-euclidea è l'opera di Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico e fisico tedesco, autore del saggio Disquisitiones arithmeticae, del 1801. Nel corso dei suoi studi elaborò importanti concetti, quale quello della curvatura delle superfici. Concetto che ebbe grande importanza nello sviluppo delle geometrie non-euclidee. Egli stesso considerò la possibilità di fondare geometrie diverse da quella di Euclide. Questa sua considerazione, però, rimase inedita.
Deve essere ricordato anche il matematico russo e professore Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1793-1856), che enunciò i principi di una nuova geometria nei saggi Geometria immaginaria, del 1837, Ricerche geometriche sulla teoria delle parallele, Pangeometria e Nuovi principi della geometria.
Importante anche Janos Bolyai (1802 – 1860), matematico ungherese, che in una lettera al padre, anch'egli matematico e seguace di Gauss, aveva enunciato le linee essenziali delle geometrie non-euclidee contrastanti il quinto postulato di Euclide. Queste supposizioni vennero pubblicate in un'appendice dell'opera del padre nel 1832 – 1833, e in essa Bolyai afferma che la scoperta delle geometrie non-euclidee porta alla concezione della “geometria assoluta”, di cui quella euclidea sarebbe solo un caso particolare.
Decisiva è anche la figura di Bernhard Riemann (1826 – 1866), matematico tedesco e professore a Gottinga, autore del saggio sulle geometrie non-euclidee dal titolo Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, in cui afferma che “sembra che i concetti empirici su cui si sono basate le misurazioni spaziali, in particolare i concetti di corpo solido e raggio luminoso, cessino di valere nell'infinitivamente piccolo, di conseguenza si può benissimo concepire che nell'infinitivamente piccolo le relazioni metriche dello spazio non siano in accordo con i postulati della geometria[...]”.
Giovanni Girolamo Saccheri (1667 – 1733), matematico italiano, nell'opera Euclides ab omni naevo vindicatus, del 1733, giunge, invece, senza volerlo, a conseguenze che anticipano le geometrie non-euclidee, cercando di dimostrare la validità del quinto postulato di Euclide per assurdo.
Le teorie non-euclidee aprirono la strada a nuovi orientamenti epistemologici. Da essi deriva la teoria della relatività di Albert Einstein (1879 – 1955), matematico e fisico tedesco, autore del saggio l'Elettrodinamica dei corpi in movimento, del 1905, della Relatività. Esposizione divulgativa, pensieri degli anni difficili e dei Fondamenti della teoria generale della relatività, del 1916. La teoria della relatività nasce dalla necessità di dare spiegazioni all'interno degli esperimenti di ottica e di elettrodinamica. In tale teoria spazio e tempo non sono più interdipendenti, come affermava la fisica classica, anche se questa rimane valida perché in quel contesto tale principio non pone problemi rilevanti.
Altro capisaldo della fisica classica e della concezione dell'universo che entra in crisi è il principio della continuità. Ciò ad opera di Max Plank (1858 – 1947), il quale per dare spiegazione di alcuni fenomeni delle radiazioni elettromagnetiche, formula il concetto di quanto elementare di azione. Tale concetto nasce dalla constatazione e dalla scoperta che l'energia non può esser assorbita o emessa dalla materia sotto forma di radiazioni per quantità piccole a piacere, e quindi in maniera continua, ma sempre per quantità determinate, multiple di una costante (detta di Plank) e, quindi, in maniera discontinuo. A tal proposito Plank afferma che la natura procede a salti e con “salti assai singolari”. Questa scoperta fa abbandonare la fisica meccanica corpuscolare, che ha come metodo epistemologico di base la concezione dei corpuscoli o punti immateriali aventi un movimento stabilito ed invariabile, per adottare la fisica ondulatoria, dove i processi vengono spiegati come singole onde materiali corrispondenti alle vibrazioni del sistema. Ad Heisenberg si deve, invece, il fondamentale principio di indeterminazione. Tale principio sconvolge non solo la concezione tradizionale dell'universo, ma anche e soprattutto il rapporto tra osservatore ed osservato, ossia lo schema fondamentale di ogni ricerca scientifica sperimentale. Le leggi naturali, infatti, non esprimono relazioni fisse della natura, ma possono dare soltanto una formulazione statistica dei fenomeni osservati e del loro esito probabile; e questo non per un difetto degli strumenti di osservazione (che si potrebbe sempre sperare di eliminare con il progredire della tecnica), ma per la struttura stessa del materiale osservato e per le inevitabili e imprevedibili modificazioni e perturbazioni necessariamente apportate a tale struttura dal progresso di osservazione (si pensi soltanto all'energia necessaria a illuminare l'oggetto da osservare, che inevitabilmente si trasmette in esso, almemo in parte); tali modificazioni e perturbazioni, si è detto, sono imprevedibili perché per controllarle ed accertarle si dovrebbe, con un secondo metodo di osservazione B, osservare, e quindi modificare e perturbare il processo di osservazione A, e così all'infinito. Un nuovo apporto alla scienza viene dato dal principio di complementarietà (1927), formulato dal fisico danese Niels Bohr (1885 – 1962). Le sue opere principali prendono il titolo di Teoria dell'atomo e descrizione della natura (1931), di Fisica atomica e conoscenza umana (1958), di Saggi su la fisica e la conoscenza umana (1958 – 1962). Secondo il principio di complementarietà lo studio corpuscolare di un sistema deve essere integrato allo studio ondulatorio del sistema stesso, anche se tra i due tipi di misure non vi può essere alcun tipo di passaggio. La scuola di Bohr ha, in tal modo, eccentuato il carattere probabilistico e indeterministico della scienza moderna, contro le interpretazioni realistiche di Planck. Di notevole importanza anche gli sviluppi della teoria evoluzionistica, che, oltre a tante entusiaste adesioni, ebbe anche delle forte polemiche e critiche sia in capo scientifico che religioso e morale. Per quanto riguarda gli aspetti propriamente scientifici, si trattava di capire come si ereditassero i caratteri acquisiti. De Vries (1848 – 1935), autore di una Teoria delle mutazioni e di una Specie e varietà. La loro origine della mutazione, afferma che le mutazioni avvenivano grazie a piccole mutazioni discrete, e cioè per salti, o, ancora meglio, per discontinuità. Ciò significa che tra la forma dell'organismo precedente e il successivo non si ha un carattere intermedio. L'unione di evoluzionismo e genetica portò invece contributi chiarificatori con l'opera dell'abate austriaco Gregor Mendel (1822 – 1884). Importante è un suo saggio del 1866 in cui opera degli esperimenti di ibridazioni di piselli, ossia vengono incrociate piante con caratteristiche tra loro diverse. Questi studi chiarirono il fatto che i caratteri non si ereditano in maniera diretta, ma attraverso i geni, ossia attraverso fattori interni che in seguito ricompariranno nella progenie, ovvero le caratteristiche dominanti; altre, invece, dette caratteristiche recessive, scompariranno per ricomparire nelle generazioni successive. 

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