venerdì 6 luglio 2012

Immanuel Kant


Kant nasce a Konigsberg il 22 aprile del 1724 da una famiglia di carattere pietista. La sua formazione è di stampo illuministica e wolffiana. Iscrittosi all'università della città nativa, studia matematica e fisica. Nel 1755 consegue il dottorato con lo scritto dal titolo De igne, e, nel medesimo anno, ottiene la libera docenza con il testo dal titolo Nuova illustrazione dei primi principi della conoscenza metafisica. Qui viene esaminata la possibilità della costruzione di una metafisica come scienza, partendo dalla metodologia sviluppata da Newton. Sempre del 1755 è il saggio Storia generale della natura e teoria del cielo, che presenta una spiegazione di tipo meccanico della formazione dell'universo in linea con il sistema fisico newtoniano. Dell'anno seguente è il Monadologia fisica. Del 1763 è L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, e del 1764 è il Saggio sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale. Qui viene operata una distinzione tra matematica e filosofia: la prima è una costruzione che opera per via di sintesi; la seconda è, invece, un'analisi degli elementi degli oggetti che sono dati. Del 1766 è lo scritto Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, dove Kant afferma l'impossibilità della conoscenza di essenze. La conoscenza di essenze, infatti, può avvenire solo in maniera negativa. Ciò, ovviamente, chiarisce i limiti stessi della conoscenza umana. Conseguentemente la metafisica ha senso unicamente come scienza dei limiti della ragione umana.
Nel 1781 si ha la pubblicazione della Critica della ragion pura. Nel 1783 esce una sintesi di quest'opera di più agevole lettura dal titolo Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza. Nel 1786 escono i Principi metafisici della scienza della natura e nel 1787 la II edizione della Critica della ragion pura. Del 1788 è, invece, la Critica della ragion pratica, e del 1790 la Critica del giudizio. Nel 1793 esce La religione nei limiti della semplice ragione. Questo scritto viene ammonito dal governo prussiano, ma con la morte di Federico Guglielmo II nel 1797, Kant può continuare liberamente i propri studi. Il nostro filosofo muore a Konigsberg il 12 febbraio del 1804.
La filosofia di Kant è un criticismo finalizzato allo studio e all'esame delle possibilità e dei limiti conoscitivi della ragione umana. Ed infatti, kant scrive che per evitare la costruzione di un falso sapere bisogna attuare “un richiamo alla ragione affinché assuma nuovamente il più arduo dei suoi compiti, cioè la conoscenza di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste pretese, ma tolga di mezzo le pretese senza fondamento, non certo arbitrariamente, bensì in base alle sue leggi eterne ed immutabili; e questo tribunale altro non è se non la critica della ragion pura”.
Per Kant, ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi. La conoscenza, però, deve possedere i caratteri di universalità e necessarietà. Bisogna, quindi, vedere come i dati dell'intuizione sensibile vengono organizzati per avere un siffatto sapere. Ora, poiché il sapere a posteriori, empirico, non ha il carattere di universalità e necessità, bisogna vedere se è possibile avere dei giudizi a priori, che hanno quei caratteri di universalità e necessità di cui abbiamo detto. Pertanto, la filosofia kantiana si configura come una filosofia trascendentale, nel senso di ricercare i fondamenti a priori (universali e necessari) della conoscenza umana. Lo studio di Kant, quindi, non riguarda la conoscenza di oggetti o di fenomeni naturali, bensì lo studio di quelle condizioni a priori che rendono possibile la realizzazione di una conoscenza sicura e scientifica. Si tratta, anche, di vedere se è possibile la costruzione di una metafisica come scienza, o se, invece, un tale intento è irrealizzabile perché la ragione stessa nel suo operare non può realizzarlo. Ciò spiegherebbe perché la metafisica non ha mai raggiunto lo statuto di scienza.
I limiti e le possibilità della ragione vengono studiate nella Critica della ragion pura. Qui viene operata una distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici.
I giudizi analitici sono soltanto esplicativi, e cioè non aggiungono nulla alla nostra conoscenza di un dato oggetto, perché nel predicato è già detto un qualcosa dell'oggetto dato. In questo caso basta ricorrere al principio di non – contraddizione per capire se il giudizio è valido o meno. Pertanto, la logica formale non viene rifiutata da Kant, e il principio di non – contraddizione, di identità e del terzo escluso rimangono validi, ma solo all'interno della logica tradizionale. Tale logica, però, indica soltanto le condizioni necessarie ed indispensabili, ma non sufficienti, per spiegare il carattere universale della conoscenza.
Il principio di non – contraddizione è la prerogativa sufficiente per stabilire la veridicità di un giudizio analitico, ma non basta per un giudizio sintetico. Un giudizio che aggiunge un qualcosa non compreso nel concetto.
I giudizi analitici sono tutti a priori, universali e necessari, ma proprio perché il predicato non aggiunge nulla di nuovo al soggetto, non sono estensivi della nostra conoscenza. I giudizi sintetici sono, invece, estensivi del nostro conoscere perché il predicato aggiunge qualcosa al soggetto, ma se tutti i giudizi fossero a posteriori, la nostra conoscenza non potrebbe essere universale e necessaria. Vi sono, pertanto, dei giudizi sintetici a priori, che oltre ad aggiungere un qualcosa al soggetto, garantiscono la validità scientifica dell'affermazione. La prova dell'esistenza dei giudizi sintetici a priori ci viene data dalla matematica, i cui giudizi sono sintetici a priori perché risultano da una costruzione a priori. Ad esempio, 7 + 5 = 12. In questa unione di due numeri non si ha nulla che mi indica il risultato finale, che viene raggiunto mediante una costruzione intuitiva. È vero, però, che mediante l'analisi possiamo risalire agli elementi costitutivi della somma. Ciò, però, non significa che per via analitica possiamo giungere al totale dell'addizione.
L'intelletto, pertanto, è in grado di giungere a dei giudizi sintetici a priori. Kant, però, giunto a questo punto, si chiede dove è lecito applicare tali giudizi. Per rispondere a ciò opera una critica delle facoltà conoscitive dell'uomo, e cioè della sensibilità, dell'intelletto e della ragione. Questi studi prendono il nome di estetica (àisthetis: sensazione) trascendentale, analitica trascendentale e dialettica trascendentale. Trascendentale indica che lo studio interessa le facoltà e non gli oggetti e i fenomeni, e cioè il contenuto, bensì la forma, ossia la struttura interna dell'intelletto che permette la costruzione di un sapere valido.
Nell'estetica trascendentale Kant chiarisce che lo spazio e il tempo non sono realtà assolute o dati empirici, bensì intuizioni pure a priori, e cioè condizioni a priori della sensibilità. Lo spazio e il tempo sono le forme che permettono la conoscenza. Ciò significa che non potremmo conoscere nulla senza il nesso spazio – tempo. In altre parole, queste due forme non sono ricavabili dall'esperienza. L'uomo, quindi, è capace di esperienza e di rappresentarsi le cose esterne e accostarle le une accanto alle altre perché possiede dentro il proprio intelletto la forma di spazio. Stessa cosa vale per il tempo, che non è ricavabile dall'esperienza, ma che permette, invece, di avere le rappresentazioni in maniera simultanea o successiva.
Vi è, comunque, un primato della forma del tempo su quella di spazio, ciò perché tutte le rappresentazioni appartengono al nostro stato interno, alla nostra coscienza che si snoda in una successione temporale. Da queste due forme a priori si possono ricavare varie scienze sintetiche, come la matematica che è una costruzione pura attuata mediante le intuizioni pure di spazio e tempo.
Kant opera una distinzione tra la sensibilità e l'intelletto.
La sensibilità è quella facoltà che recepisce le rappresentazioni, mentre l'intelletto è la facoltà che le pensa. Ovviamente, senza sensibilità non ci sarebbe dato nessun oggetto, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. Conseguentemente, solo dall'unione di sensibilità ed intelletto si può avere la conoscenza. L'intelletto è, pertanto, la facoltà del pensiero, e cioè del giudicare. Nell'uomo, infatti, pensare significa predicare qualcosa di qualche altra. Detto ciò, ne consegue che l'intelletto è la facoltà dei giudizi, che Kant studia nell'analitica trascendentale. In questa parte della Critica della ragion pura vengono studiati i concetti puri, ossia le categorie. Queste altro non sono che funzioni logiche, e cioè i modi in cui l'intelletto organizza le funzioni. Anch'esse hanno il carattere di essere a priori e formali. E cioè le categorie non sono ricavabili dall'esperienza, ma è quest'ultima che si rende possibile mediante esse. Le categorie di Kant sono funzioni logiche e sono totalmente differenti dalle categorie aristoteliche, che avevano un carattere classificatorio e realistico (nel senso che pretendevano di rispecchiare la realtà).
Per Kant vi sono quattro forme di giudizi fondamentali, ed ogni forma si divide in tre momenti, a cui corrisponde una categoria, con il risultato di dodici categorie:
Giudizi
Categorie
1. Quantità
Universalità
Particolari
Singolari


Unità
Pluralità
Totalità
2. Qualità
Affermativi
Negativi
Infiniti


Realtà
Negazione
Limitazione
3. Relazione
Categorici


Ipotetici


Disgiuntivi






Inerenza e sussistenza
substantia et accidentis
Causalità e dipendenza
causa ed effetto
Reciprocità
azione reciproca tra agente e paziente
4.Modalità
Problematici
Assertori
Apodittici


Possibilità – impossibilità
Esistenza – inesistenza
Necessità – contingenza

La molteplicità delle categorie non deve indurre a pensare che l'intelletto abbia funzioni tra loro indipendenti. Le categorie, infatti, sono articolazioni di un'unica funzione fondamentale che Kant chiama appercezione trascendentale o Io penso.
Giunti a tal punto, bisogna chiarire il concetto di rivoluzione copernicana che Kant dice di aver operato. Egli, infatti, afferma che non si è riusciti a giungere ad una scienza universale e necessaria perché si è creduto che dovesse essere l'uomo a piegarsi agli oggetti. Questo modo di procedere, però, è stato inconcludente e bisogna percorrere il cammino inverso, e cioè debbono essere gli oggetti che a regolarsi alla nostra conoscenza, a doversi conformare ai principi a priori che fondano il nostro conoscere, alla modalità di funzionamento del nostro intelletto, e cioè spazio – tempo e categorie.
Ma come si applicano le categorie, che sono concetti puri, all'esperienza? Kant risolve il problema ricorrendo alla deduzione, che egli chiama trascendentale. La deduzione trascendentale supera la totale diversità tra le categorie o concetti puri e i dati esperienziali mediante un terzo elemento intermedio, ossia il tempo. Il tempo, infatti, è sia a priori, perché è una forma universale, sia a posteriori, perché è implicito in ogni rappresentazione del molteplice. L'applicazione delle categorie ai fenomeni è possibile mediante gli schemi trascendentali, che sono facoltà intermedie fra intelletto e sensibilità. Kant, però, ci invita a non confondere gli schemi con le immagini. Se, per esempio, disegno cinque punti l'uno dietro l'altro, allora ho un'immagine del numero cinque. Se, però, penso al numero mille, non posso avere un'immagine di questo numero perché non posso rappresentarmi questa molteplicità. In questo caso ho uno schema trascendentale, cioè un metodo con cui il mio intelletto opera. Ovviamente, vi saranno tanti schemi trascendentali quanto le categorie. Per esempio, per la categoria di causa, ho lo schema trascendentale di successione. L'intelletto conosce gli oggetti se sono dati dall'esperienza, se si presentono come dati o fenomeni. Non possiamo avere conoscenza della cosa in sé (noumeni), cioè non possiamo conoscere oggetti dati solo dall'intuizione intellettuale, senza alcun rispettivo confermato dall'esperienza. Il concetto di noumeno, afferma Kant, è un concetto problematico perché da un lato non è contraddittorio pensare una cosa non data dei sensi, e cioè in sé, unicamente tramite l'intelletto, perché non è detto che la sensibilità costituisca l'unica maniera di conoscenza; dall'altro, però, il noumeno assume un valore negativo, cioè di concetto limite, perché indica il limite del conoscere scientifico, universale e necessario, che deve conformarsi solo ai dati esperiti tramite l'esperienza.
Ciò non significa che la metafisica sia semplicemente una deviazione della mente, una superstizione o una fantasticheria, bensì è il risultato di un processo inevitabile ed insopprimibile della ragione umana. Per ragione non si intende la facoltà del pensare o del formulare giudizi, bensì la facoltà delle idee. Le idee, infatti, sono concetti puri come le categorie, ma a differenza di queste non hanno un valore conoscitivo, bensì regolativo. Le categorie consentono la formulazione di giudizi sintetici; le idee rispondono, invece, all'esigenza della mente umana di superare i limiti propri della conoscenza scientifica per trovare un principio incondizionato, che unifichi tutte le condizioni generali. Le idee tendono, pertanto, alla sistematicità. Questo principio unificante non avviene in ogni direzione, ma soltanto in tre, corrispondenti a tre parti della metafisica: psicologia (anima), cosmologia (mondo) e teologia razionale (Dio).
Da un lato, quindi, la ragione tende a superare le condizioni del conoscere scientifico per tendere all'incondizionato; nel fare ciò, però, la ragione si avventura in discussioni sofistiche sterili prive di valore dimostrativo. Dalla ragione si sviluppa, pertanto, la dialettica, che, in quanto è studio delle forme pure della ragione, diviene dialettica trascendentale. La metafisica, però, non può mai raggiungere lo statuto di scienza, ed infatti, la ragione non può mai attingere conoscenza di realtà puramente pensabili (noumeni), ma solo di quelle date dall'esperienza (fenomeni). Nonostante ciò, però, la metafisica rimane un'esigenza insopprimibile della ragione umana. Anche se nella ricerca di un'unità incondizionata si cade in paralogismi, ossia in ragionamenti apparentemente corretti, ma sostanzialmente sbagliati. Ciò accade quando riconduciamo il soggetto pensante a sostanza spirituale o anima, adducendo argomentazioni provanti l'immortalità e la spiritualità dell'anima. Più complessa è l'argomentazione cosmologica, dove abbiamo quattro antinomie, ossia quattro contraddizioni formulate nel modo seguente:
Tesi: il mondo ha un inizio temporale e ha un limite spaziale;
Antitesi: il mondo non ha un inizio temporale e non ha un limite spaziale;
Tesi: ogni sostanza è formata da parti semplici ed esiste solo il semplice e non ciò che è composto;
Antitesi: nessuna cosa è formata da parti semplici.
Tutte queste proposizioni sono false, perché non possono essere validitate dall'esperienza.
Stesso discorso vale per le seguenti antinomie:
Tesi: la causalità non esiste, e tutto è frutto di un processo di totale libertà;
Antitesi: il mondo si esplica secondo ferree leggi causa – effetto;
Tesi: Nel mondo si ha un Essere aoolutamente necessario;
Antitesi: nel mondo non esiste un Essere assolutamente necessario.
Per quanto riguarda l'esistenza o meno di Dio, Kant afferma che la prova che ha trovato più seguito nel corso dei secoli è quella ontologica, e cioè l'idea di Dio è quella di un essere necessario, che in quanto tale non può non esistere. L'esistenza, però, è una determinazione che si aggiunge al soggetto, e che non può essere in alcun modo contenuta nel suo concetto. Negare l'esistenza di Dio non è contraddittorio, perché il giudizio di esistenza non è analitico, bensì sintetico. Ora, proprio perché il giudizio di esistenza è sintetico, il semplice concetto o definizione di una cosa non comprende la sua esistenza. L'esistenza, infatti, non può essere trovata analiticamente nel concetto. Pertanto, posso avere l'idea di cento talleri, ma ciò non significa che li abbia realmente. Per tale motivo l'argomento ontologico, che deduce l'esistenza di Dio dalla sua definizione, non è valido; così come l'idea di una quantità di denaro non comporta di possedere realmente quel denaro. Appare chiaro, quindi, che le idee trascendentali non possono avere valore costitutivo, cioè non possono fornire concetti veri, essere produttrici di conoscenza scientifica; hanno, però, un valore regolativo, ed, infatti, orientano verso l'unità i concetti dell'intelletto. La Critica della ragion pura si conclude dopo aver fatto una completa disamina delle funzioni e dei limiti delle tre facoltà dell'uomo, ossia senso, intelletto, ragione e con la rinuncia della possibilità di una metafisica come scienza.
La Critica della ragion pratica studia il mondo morale. Essa parte da una prima constatazione, ossia quella della presenza nell'uomo di una legge morale. Questo è un fatto inspiegabile se si ricorre soltanto ai dati sensibili e si rimane all'interno dell'ambito della ragione. La legge morale si presenta all'uomo con un imperativo che comanda categoricamente. Kant opera una distinzione ben precisa tra imperativo ipotetico ed imperativo categorico.
L'imperativo ipotetico comanda un'azione in vista di un fine estrinseco ed è condizionato rispetto al fatto che si voglia o meno quel fine; l'imperativo categorico, invece, è la legge del dovere, che non determina l'azione in vista di questo o quel fine, bensì determina la volontà a priori prescrivendo la norma, il modo, la forma della nostra azione. Questa norma obbliga l'uomo ad obbedire alle prescrizioni della nostra ragione. Agire secondo ragione è, dunque, la norma morale fondamentale. Ora, poiché la ragione è universalità, l'agire morale si colloca in una sfera di razionalità e di universalità in cui si trovano tutti gli spiriti razionali.
La norma morale, quindi, afferma che il nostro agire, in quanto razionale, è universale. Da ciò consegue la massima di Kant: “agisci secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”. Per massima si intende il principio soggettivo dell'agire, mentre per legge il principio oggettivo valido per ogni essere razionale. Kant offre altre due formule dell'imperativo categorico, e cioè: “agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura” e “agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo”. Con queste tre formule Kant sottolinea con la prima il carattere universale della legge morale, con la seconda l'autonomia della ragion pratica nella legge morale, ed infatti la volontà si afferma come indipendente da ogni interesse particolare empirico, istituendosi, pertanto, come veramente universale; con la terza indica il fine.
L'imperativo categorico si identifica con la legge morale e non può comandare cose particolari, perché altrimenti cadrebbe nell'empirismo o nell'utilitarismo. La legge morale è legge morale perché si identifica con la razionalità, e, appunto perché si identifica con la razionalità è universale. La legge morale richiede di essere rispettata in quanto tale, e da ciò scaturisce la legge kantiana del “devi perché devi”. Da ciò consegue il formalismo morale kantiano, ossia morale non è ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa. La morale ha la sua essenza nell'adeguazione della volontà alla legge morale, che, a sua volta, istituisce il regno dei fini: una comunità in cui ogni persona è libera, parimenti dignitosa, e ossequiante delle leggi morali. La libertà è la condizione stessa della morale, la quale, nel momento in cui prescrive il dovere, presuppone anche che si possa agire o meno in conformità ad esso e quindi che si sia liberi. Kant esprime tale postulato con la breve formula: “Tu devi, quindi puoi”.
La ragion pratica, oltre alla libertà, scopre l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. La legge morale indica il sommo bene, che, però, non può mai essere raggiunto da un essere razionale sensibile, ma costituisce il termine ultimo di un progresso all'infinito con la finalità del raggiungimento del bene completo o sommo. Ma un processo all'infinito è possibile solo in base al presupposto di un'esistenza che prosegue all'infinito, e, quindi, postulando l'immortalità dell'anima. Inoltre, il sommo bene richiede una proporzione tra la felicità e la moralità. Una tale proporzione, però, manca nel mondo terreno, e, conseguentemente, bisogna postulare l'esistenza di Dio, di un essere che sia garante del rigoroso s accordo tra felicità e moralità.
Dai risultati della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica nasce la concezione religiosa kantiana di una “religione nei limiti della ragione”. Una religione, quindi, ricondotta all'interno dell'ambito della ragion pratica, a cui deve essere ricondotta anche la religione rivelata.
Al senso profondo della razionalità si ispira anche la concezione della storia di Kant. Questi afferma che la storia inizia nel momento in cui l'uomo perde la propria originaria innocenza con il peccato originale. Grazie alla colpa l'uomo si libera dalla natura e, oltrepassandola, scopre le infinite possibilità della libertà, ma, al di là del progresso realizzato nel corso della storia, all'uomo rimane sempre un senso di insoddisfazione e di colpa. Con l'abbandono della natura, la specie umana ha iniziato un processo di miglioramento, lungo e faticoso perché affidato alla libertà e alla ragione, e non all'istinto. Questo miglioramento porta alla realizzazione di rapporti di diritto e di rispetto non solo tra gli uomini di uno stesso stato, ma anche tra stati diversi. A tal riguardo, per Kant i rapporti tra gli uomini e gli stati devono essere regolati dalla seguente massima: “agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa accordarsi con la libertà di ogni altro, in base ad una legge morale”.
La Critica del Giudizio studia il giudizio estetico e il giudizio teleologico. Entrambi sono specificazioni diverse del giudizio riflettente, che si distingue dal giudizio determinante. Il giudizio determinante è proprio della conoscenza scientifica. Il giudizio riflettente, invece, risponde all'esigenza di ammettere nel mondo della natura una finalità intrinseca. Il giudizio riflettente, pertanto, si colloca come medio tra intelletto e ragione, tra il mondo dei fenomeni (implicanti necessità) e il mondo dei noumeni (implicanti libertà).
Il giudizio riflettente estetico e il giudizio riflettente teologico hanno la caratteristica comune di fondarsi sulla finalità, e di non essere conoscitivi. Per finalità non si intende un'intenzione (come nella morale) né il raggiungimento di un fine estrinseco (come nei prodotti artificiali), bensì un rapporto di armonia, di accordo tra le parti.
L'armonia delle facoltà dell'uomo fa sorgere il giudizio estetico, che si fonda sull'accordo spontaneo di immaginazione e intelletto. Il bello non è legato in maniera empirica ad un dato oggetto, ma è legato alla rappresentazione dell'oggetto nell'immaginazione, la quale si realizza in maniera conforme alle esigenze dell'intelletto. Per tale motivo, il sentimento del bello è un piacere disinteressato, che nasce dal libero gioco delle facoltà dell'animo. La capacità di giudicare prende il nome di gusto. Il bello deve essere distinto dal sublime, ed infatti il bello nasce dal sentimento di armonia tra immaginazione ed intelletto, mentre il sublime rompe questa armonia, in quanto l'oggetto si viene a rappresentate come al di là di ogni comparazione, infinito, provocando all'osservatore repulsione ed attrazione, disgusto ed ammirazione, un piacere sia positivo che negativo. Il giudizio riflettente teologico parte dalla considerazione che un organismo vivente non è una semplice somma di singole parti, bensì è il risultato di un rapporto reciproco di queste parti. Ciò ci obbliga ad ammettere una finalità interna della natura.

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